lunedì 13 agosto 2012

Foto di bambini torturati e uccisi sul computer di due torinesi


Blitz della polizia: scoperti
archivi con migliaia di file
MASSIMO NUMA
TORINO
Gli insospettabili della porta accanto. Il primo ha 32 anni, è un tecnico, moglie e due figli. Due i precedenti specifici nel suo passato: un tentativo di violenza ai danni di un’adolescente, figlia di un amico, con relativa condanna a due anni, e un processo in corso, per detenzione di materiale pedo-pornografico. Il secondo, incensurato, ne ha 51, è un libero professionista, pure lui moglie e due figli. Arrestati dal pm Alessandro Sutera Sardo per i loro spaventosi archivi digitali pedo-pornografici. Di più. Tra le immagini acquisite dai detective della polizia postale di Torino anche foto di bimbi che fanno parte della loro cerchia familiare, scambiate con altri soggetti dediti a questo squallido e macabro scambio. Macabro perché, nelle migliaia e migliaia di
files, alcuni riproducevano sequenze di torture, orribili violenze sessuali e persino pestaggi la cui conclusione inevitabile è la morte. Le vittime sono bimbi di pochi mesi, di cinque o sei anni. Poi stupri di gruppo, con protagonisti bambini che purtroppo è molto difficile identificare. I film sono girati nei paesi dove la tutela dei minori è pari a zero: alcune regioni dell’Est Europa, dell’Asia, ma da qualche tempo i set - forse - sono anche in Italia. Lo si deduce da alcuni particolari degli arredamenti, dagli scorci di paesaggio che si intravedono nelle case dei mostri, nei tratti antropometrici dei violentatori e nei loro vestiti. Dettagli in apparenza senza importanza ma utilissimi per tentare di localizzare almeno le zone geografiche dove operano i pedofili.

Cinquant’anni
L’uomo, che abita con la famiglia in una villetta della cintura, quando la polizia - all’alba di alcuni giorni fa - ha bussato alla sua porta, tutt’altro che stupito, ha mormorato poche parole e infine ammesso tutto: «So perché siete qui». Da dieci anni quest’uomo colleziona e scambia snuff-film, video amatoriali in vendita a prezzi elevati sul web (anche 500, 1000 euro e oltre), che riproducono vere sessioni di tortura e spesso, anche, gli ultimi istanti di vita di vittime sconosciute. L’uomo aveva in archivio una ventina di gigabyte di materiale illegale, frutto di un’intensa e continua ricerca sulla rete.

Nei pc del tecnico, invece, (finito in carcere il 20 aprile scorso) oltre trentamila clip pedo-pornografiche, quindicimila filmati e altrettante fotografie. Protagonisti di quei file erano bambini, anche neonati. Violentati e sadicamente torturati da adulti, spesso, persino a volto scoperto.

Il finto amico
Smascherato da un poliziotto sotto copertura, che per un anno ha finto di essere un pedofilo alla ricerca di materiale di un certo tipo, di foto e filmati per i quali si pagano anche somme rilevanti di denaro. L’agente è riuscito finalmente a ottenere la fiducia dei pedofili, ha chiesto e ottenuto di far parte di un circolo ristrettissimo di utenti che, attraverso un software che usa un linguaggio criptato, scaricano foto e video pedo-pornografici su chat rigorosamente segrete, che si appoggiano su server internazionali in Paesi dove non vige alcun controllo o contatti con i sistemi di sicurezza occidentali. E non solo: anche video e immagini di bambini sottoposti a torture di ogni tipo.

Le indagini non sono ancora concluse, la procura vuole identificare gli altri insospettabili che utilizzavano le chat dei pedofili. Il cinquantenne usava tecniche sofisticate, segno di una profonda conoscenza sull’uso dei pc e su come navigare, in modo anonimo, sul web. Il poliziotto sotto copertura che lo ha seguito per mesi ha individuato, con infinita pazienza, i suoi numerosi nickname con cui cercava di nascondersi.

Le manette
Il loro arresto ha gettato nella disperazione le famiglie. Mogli inconsapevoli della sconvolgente doppia vita dei mariti, persi nel labirinto dei loro incubi, di un’ossessione implacabile. Il tecnico lo avevano trovato ancora davanti alla tastiera, impegnato in una scambio. L’altro, nella villetta, aveva trasformato un locale, sempre chiuso a chiave, nell’archivio dell’orrore.

Fonte La Stampa

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